sabato 12 luglio 2008

Stai tranquillo c'è sempre qualcuno più pazzo di te!!!

Diario della corsa NEANDER-TRAIL 2008, da Camp d’Argent, colle del Turini a Cap d’Ail, plage Marquet.

di Yann Ballestra.


Notte tra il 14 e il 15 giugno.




Per la mia seconda partecipazione a questo splendido ultra trail di 54 Km mi sento decisamente più preparato rispetto all’anno scorso. Di conseguenza la mia aspettativa di riuscita è, oltre all’ovvio, ma non scontato fatto di arrivare al traguardo e vincere l’ambitissima maglietta di finischer, anche quella di abbassare il mio tempo personale di 11 ore e 28 minuti.
Il ricordo della sofferenza patita e delle emozioni vissute sono ancora vive in me come immagini e come memoria corporea. Da un lato sono dunque animato da una grande motivazione, dall’altro è forte l’apprensione, la paura di dover affrontare la notte, il freddo, la solitudine, la possibilità di perdersi in mezzo al bosco o farsi male. Poi c’è la fatica, i dolori muscolari e articolari, il corpo che dice basta dopo 5 ore di corsa, mentre tu sai chiaramente che sei solo a metà e devi trovare le risorse nella tua mente, risorse quasi magiche che possono poi permetterti di fare cose straordinarie, che in definitiva vuol dire “semplicemente”, arrivare alla fine.
Insieme a me Jeff, l’amico che mi ha fatto conoscere la corsa e che l’anno scorso si è dovuto ritirare per crampi. Da più di otto mesi si prepara con un intenso allenamento da triathlon; io invece non sono così pronto, ma ci accordiamo comunque per cercare di correre insieme e motivarci a vicenda nei momenti difficili.
Sabato mattina mi sveglio alle sette. Da una settimana ormai la notte non faccio altro che sognare la gara, mentre di giorno il pensiero fisso ritorna incessantemente e in modo ossessivo. Finalmente ci siamo! Controllo il meteo e mi rendo conto che non sarà facile, in montagna sono previsti temporali fino a notte fonda. Preparo la colazione del neanderthal, un bel centrifugato di frutta e due etti e mezzo di pasta all’olio e grana, ma fatico a mandar giù tutto, lo stomaco si contrae per la tensione; tuttavia mi sforzo perché so che stanotte tutto ciò sarà benzina per le mie gambe. A mezzogiorno un altro piatto di pasta mentre preparo meticolosamente il mio micro zaino nel quale metto un litro e mezzo d’acqua, una coperta di sopravvivenza, sei barrette energetiche, un fischietto, un coltellino, una fascia di contenzione, due bustine di polase, una lampada frontale dei compeed e l’ipod.
Alle 13 passo in spiaggia a salutare Cristina e i bimbi. C’è un bel vento da ponente e gli amici del windsurf sono tutti in acqua, mentre io con la mente mi sento già altrove, immerso in una dimensione puramente introversa, non penso a nulla, mi sembra di galleggiare nel vuoto, ma non è così. È la tensione che sale.
Da Bordighera con la macchina passo a Mentone a prendere Jeff, non parliamo molto. Arriviamo a Cap d’Ail dove domani all’alba dovremmo tagliare il traguardo sulla spiaggia, mentre un grosso cronometro segna il tempo dei cromagnon, partiti stamattina da Limone. Loro percorreranno più di 100 km correndo… e mi inchino. Prendiamo posto sull’autobus che ci porterà a Camp d’Argent, la partenza. Il viaggio è lungo, ho freddo, sono seduto scomodo. C’è chi parla incessantemente, chi medita, chi cerca di dormire. Mi colpisce un uomo di fronte a me, agitatissimo, un po’ soprappeso, ha l’aria da turista con la sua maglietta di cotone bianca, mentre la maggior parte degli atleti sono con vestiti iper tecnici, mi chiedo: “Ma dove va? Lo sa cosa dovrà affrontare?” Poi mi dico: “Non giudicare nessuno, non guardare nessuno” e faccio bene, me ne renderò conto all’arrivo. Man mano che saliamo il tempo si fa sempre più grigio e nebbioso, poi comincia a piovere. Dopo due ore e mezzo arriviamo al campo base. Ci fanno entrare in una baita: siamo un centinaio di pazzi, una trentina di donne, tutti attorno a due caminetti accesi. Ritiriamo il pettorale consegnando il certificato medico sportivo e poi la coda al cesso, tutti in fila a pisciare. Non è la prostata, ma la tensione pre-gara. Meno male che la diarrea l’abbiamo scaricata tutti la mattina a casa…
Bene, ora siamo puri, totalmente vuoti, fisicamente e mentalmente, pronti a nutrirci di paura, nebbia, pioggia, fango e sudore.
Lo starter grida: “Ok, tutti fuori! Anticipiamo la partenza, sono previste piogge più intense per le prossime ore, i sentieri sono molto scivolosi, state attenti nel bosco e sui crepacci, tra cinque minuti darò il via!”
Uno strano silenzio scende sulla baita, si sente solo il fruscio delle giacchette e degli zaini. Usciamo fuori, fa freddo e piove. La partenza è in salita, un primo dislivello positivo da 1700 a 2000 metri di altitudine in 8 km. Siamo tutti accalcati di fronte ad un nastro bianco e rosso. Conto alla rovescia: -10..9..8… tutto ad tratto la tensione monta alle stelle e dal silenzio assoluto emerge un boato provocato da tutti i concorrenti, neanche si partisse per uno sprint! -3..2..1 Via! Partiti.
Io (giacchetta azzurra e cappello da Indiana) e Jeff ( alla mia sx con cappello bianco) un attimo dopo la partenza
Corriamo subito ad un buon ritmo e in pochi minuti il gruppo si divide in due sezioni, chi corre e chi decide di scaldarsi camminando, in fondo dobbiamo percorrere 54 km, c’è tempo. Io e Jeff abbiamo fissato il nostro primo obiettivo: arrivare a Sospel, il primo punto di controllo e ristoro, in meno di 3 ore, sono 24 km. Quindi non possiamo che correre e anche a un buon ritmo. Il primo tratto sale e io vado subito in affanno, sento le gambe dure, i polpacci tirano e non ho fiato, il cuore è troppo veloce. Che mi succede? Poi capisco, sto patendo l’altitudine, mi sono sempre allenato al mare e il mio corpo si adatta lentamente, in più sento molto la tensione della gara, un mix mortale. Jeff mi guarda preoccupato mentre sputo catarro e saliva bianca, ho mal di testa, tutti indici di insufficiente ossigeno nei muscoli. Cerca di rassicurarmi e spronarmi: “Dai, dobbiamo fare i primi 6 km in meno di 45 minuti, sono i più duri, poi ci sarà una lunga discesa, non mollare”. Cerco di tenere duro e forzare, ma mi sento stremato, i battiti sono troppo alti, mentre in realtà sto solo corricchiando e non dovrei neppure sentirlo il cuore, anche se in salita. Dopo mezz’ora comincio a rallentare e alla fine decido e gli dico: “senti vai, tu stai bene, ti sto solo rallentando, tanto non ce la faccio a tenere questo ritmo, non ti preoccupare, ci sentiamo col cellulare e magari ti riprendo a Sospel”. Sorrido, ma ho paura. Devo insistere parecchio, ma alla fine lo convinco e il suo ritmo cambia, in meno di 5 minuti sparisce dalla mia vista, per fortuna non si gira mai. Di colpo sono completamente solo, fragile, un po’ perso, con un handicap forte già alla partenza, ma tutto ciò, magicamente, mi fa scattare qualcosa nella testa e la difficoltà, invece di deprimermi, mi motiva. Nel frattempo non smetto di correre, anche se lentamente. Il cuore sempre a mille, parecchie extrasistole di contorno e sulle spalle parecchia pioggia, sempre più intensa.
Queste condizioni fisiche perdurano per le prime due ore, i primi 16 km fino ai primi 1400 metri di altitudine, poi, progressivamente mi sento sempre più leggero, le gambe più libere, mentre spiove e il fango è meno presente sul sentiero. Allora comincio a lasciarmi andare in discesa, il busto in avanti trovo un buon ritmo e recupero il tempo perso rischiando tuttavia più volte di cadere. Sforzo parecchio, ma mi sento bene, vivo e in gara.
Arrivo a Sospel, il primo punto di ristoro, in tre ore e 5 minuti. Sono 24 km fatti, finiti e conquistati, passando per un bosco buio e fangoso, sentieri ripidi, con la luce frontale che si rifletteva nella nebbia creando uno schermo bianco accecante. Appena mi fermo mi rendo subito conto di aver bruciato molte energie, in più sono bagnato fradicio e ho freddo, come tutti gli altri d’altronde. Ci sono due amici ad accogliermi, Enrico e Valentina, è bellissimo vederli, dopo quelle interminabili ore passate da solo, ma non aiuta e un pensiero perverso si affaccia alla mente: ”Potrei farmi portare a casa da loro, in fondo ho già corso tanto, cosa devo dimostrare di più, sono stanco, ho freddo…”. Un brivido mi scuote. Bevo del the caldo, mangio una banana, mi riempio le tasche di uvetta, la borraccia d’acqua e li saluto pensando: ”Devo assolutamente ripartire al più presto”. E riparto. Da Sospel si comincia a salire seriamente, è il primo colle da affrontare con un dislivello del 20,44% per 2km e mezzo, ripidissimo, in sostanza ci si arrampica. Fatico, ma sto bene, le gambe ci sono, il cuore anche e tengo un buon ritmo. È notte fonda e tutto tace, da più di due ore non piove e i vestiti cominciano ad asciugarsi. Dopo più di un’ora arrivo in cima, stanco ma felice, il cielo comincia ad aprirsi, sopra di me fa capolino un splendida luna che illumina il bosco. Le montagne da cui provengo sono ancora immerse nelle nuvole, verso sud, invece, scorgo il mare infinito che si confonde con il cielo e il mio spirito si riempie di speranza, anche quest’anno posso farcela!
Ho percorso ormai correndo e arrampicandomi 30 km, scendo dal Col de Castillon e arrivo su una pista in terra battuta tutta in falso piano e ricomincio a correre, anche se mi devo obbligare, anche perché la tentazione di riposarmi un po’ dopo la lunga scalata è forte. In più so che tra 6 km dovrò affrontare il colle più duro, il mitico Baudon, ma so che sono questi i tratti in cui posso migliorare il mio tempo e allora via, di corsa, le ali ai piedi, anche se le gambe fanno male, così come le articolazioni di caviglie, ginocchia e bacino: un concerto in do-lore.
Arrivo al rifornimento del Col des Banquettes, un grande fuoco immerso nell’oscurità, visi accoglienti e ammirati da parte degli organizzatori pronti a servirti e sollecitarti a mangiare e bere, mentre i compagni di corsa, una quindicina in tutto, sono silenziosi, le facce stravolte e gli occhi impallati, rossi, guardano altrove perché non è affatto finita. Lo stomaco è contratto per il freddo patito su in montagna, ho la nausea, i brividi, le gambe dure e doloranti. Sento tuttavia di avere ancora energie e tanta voglia di farcela. Sono consapevole che d’ora in poi sarà una dura lotta oltre i limiti del mio corpo, una questione puramente mentale, fatta di imposizioni e regole: obbligarsi ad andare avanti, non fermarsi assolutamente mai, dovessi arrivare a far passare minuti tra un passo e l’altro. Mi aspetta una salita di 2 km e mezzo con una pendenza del 21,20%, per poi scenderne altrettanti strisciando col culo su una pietraia per non rotolare a valle. Guardo una volta, una volta soltanto il mio nemico, guardo la cima e più su la luna e le stelle. Poi abbasso la testa, la luce della lampada frontale illumina le mie scarpe e le mie gambe in un tutt’uno di fango e sudore. E allora dai! Un passo dopo l’altro, le ali ai piedi e saliamo in Paradiso!
Fa subito male, il cuore batte forte, sento il mio respiro, ogni tanto digrigno i denti ed emetto strani suoni, mi brucia il petto e mi chiedo se non mi verrà un infarto. Punto i bastoni a terra e mi tiro su, ogni tanto mi aggrappo anche a un ramo, sto praticamente scalando. Mi dico: “Yann, non ti fermare per nessun motivo finchè non arrivi in cima”. Dopo poco si accoda un gruppetto di 5 persone, chiedo se vogliono passare, mi rispondono che il mio ritmo va benissimo. Li tiro per 45 minuti, finchè ad ogni passo il respiro si fa più pesante, la salita sembra infinita. A 5 minuti dalla cima il sentiero si allarga e inesorabilmente, uno dopo l’altro, il gruppetto mi supera. Sono in difficoltà, avanzo a rilento e penso che non arriverò mai in cima. Se mi fermo ho la sensazione che le mie gambe potrebbero bloccarsi come tronchi e rimarrei per sempre piantato in questa maledetta salita. Penso: “Aiutatemi…”, guardando il gruppetto che si allontana sempre più, ma non ricevo nessuna parola di incitamento. Piano piano spariscono nella notte e mi ritrovo solo. È il momento più duro, ho paura. “Dai Yann, dai, si corre da soli qui, è il bello di quest’avventura, sei quasi in cima, manca poco, solo un piede davanti all’altro, non costa nulla”. E invece costa, tantissimo. Dopo un’eternità di passi alzo lo sguardo e vedo, a 20 metri, la cima. Ci sono! Di colpo sento il mio corpo scaldarsi, ce l’ho fatta, 530 metri di dislivello con 35 km nelle gambe. Ormai sono più di sette ore che corro e mi arrampico, che soffro e che vivo in modo talmente intenso! Dio mio sono in Paradiso, da lassù vedo casa, Bordighera, con le sue lucine bianche, poi dalla parte opposta l’aeroporto di Nizza, la splendida, fino a Cannes, dietro di me le montagne nere che ho appena attraversato, sempre immerse nella nebbia inquietante. Ma io corro verso la luce. Mentre la luna lentamente tramonta, da est si affaccia la luce del sole, della vita e la mia vittoria bussa all’orizzonte. Ormai ci credo veramente! È tutta la notte che corro e anche solo per essere qui, in questo istante, su questa altissima cima, a guardare il mare fuso nel cielo con le navi illuminate che sembrano vascelli spaziali sospesi nel nulla, ne è valsa la pena. Mentre centinaia di migliaia di persone dormono ai miei piedi, io sono qua, sveglio e vivo come mai, in questa magica notte, che è solo mia, perché da solo sono arrivato fino qua.
Ma non è finita, ci sono ancora 17 km da percorrere, da correre. La conquista del colle mi dà una sferzata di coraggio e rinforza la mia volontà. Scendo a tentoni, giù per una ripidissima pietraia e comincio a sentire la brezza tiepida del mare, gli odori familiari della ginestra selvatica, del timo e del rosmarino. Piano piano la natura si risveglia e non è più il silenzio angosciante del bosco, ma un concerto di uccellini che mi accompagnano. E mi sforzo di correre, faccio 20 passi di corsa e 10 camminando, appoggiandomi con forza ai bastoni. La strada riprende poi ancora a salire per 3 km al 7%, è una vera tortura, ma finisce in fretta. Sono alla antenne sopra Nizza, corro, corro, non so nemmeno io dove trovo la forza. Arrivo al golf di Monaco sul Mont Agel, ormai sono sicuro di farcela e rallento un po’ prima di arrivare alla Turbie. Il telefonino squilla, è Jeff che felice mi grida: “ce l’ho fatta, ce l’ho fatta, sono appena arrivato, ci ho messo nove ore, non so come, è incredibile!!” Mi complimento con lui dandogli del cinghiale di montagna. Poi mi chiede dove sono, sa che sto soffrendo come un cane e che non posso più correre, ma riesce a motivarmi. Mi dice che mi manca meno di un’ora e che “devo” correre. Lui mi aspetterà all’arrivo per farmi una foto, ma solo se arrivo correndo. “Dai sbrigati che qui c’è una doccia calda magnifica”, mi dice ridendo. Ritrovo nuove energie dalle emozioni trasmesse dalla sua personale vittoria e incredibilmente ricomincio a correre. Passo la Turbie, ultimo punto di ristoro, senza fermarmi, al volo prendo un po’ di cioccolato. Corro come un burattino, ma corro. La discesa è infinita, è un’ora lunghissima e nel frattempo si fa mattina. Il mio corpo sprigiona il calore di una fornace, mi sento duro, pesante e goffo, ma la mia anima è libera e leggerissima. Sono veramente felice, mi godo il panorama e corro verso il traguardo. In lontananza vedo Jeff che si sbraccia, gli passo accanto e poi costeggio le transenne dell’arrivo. Non sono ancora le 6 del mattino e ci sono solo i corridori che sono già arrivati. Tutti ti sorridono zoppicando, mentre tu ancora corri quegli ultimi 10 metri da eroe. Gli sguardi si incrociano per un attimo, sono persone che non conosci, ma che hanno appena percorso la tua stessa strada e negli occhi hanno tutti una luce… Tre passi di corsa e poi il traguardo, e un piccolo applauso. Mi fermo, cammino e abbraccio Jeff. 10 ore e 20 minuti, un’ora in meno rispetto all’anno scorso!
Mi sento svuotato, fatico a parlare eppure sento di avere qualcosa in più rispetto a ieri sera, di essere più autentico, di sapere qualche cosina in più sul senso della vita. Sento di avere ancora più voglia di vivere dopo aver vissuto così intensamente per più di 10 ore. Ma soprattutto, sento che la mia anima sta già cercando nelle immagini della memoria, sentieri e boschi. La mia anima non vede l’ora di ricominciare a correre, le ali ai piedi…
Io all’arrivo
P,S. poco dopo essere arrivato, mentre andavo verso la doccia, vedo seduto il corridore improvvisato che avevo incontrato sull’autobus tutto agitato, un po’ sovrappeso, con gli occhiali da vista e senza attrezzatura tecnica. Dentro di me lo avevo giudicato sprovveduto e, sinceramente, anche un po’ sfigato. Tanto sfigato che è arrivato un bel po’ prima di me al traguardo. Allora ho capito una cosa: nella vita sono le persone più semplici che fanno le cose più straordinarie.

2 commenti:

giarevel ha detto...

Bellissimo post Yann, sei un vero passeur, come quelli di Biamonti, sulle stesse montagne.
Non è il risultato che conta è come lo si raggiunge.
Il sentiero è il messaggio.

Anonimo ha detto...

Grande Yann e anche per quest'anno è andata, ormai sei un cinghiale onorario, ora ti tocca cimentarti in un Triathlon.