mercoledì 23 luglio 2008

La città è salva

Della Straventimiglia si danno molte definizioni. Chi la chiama "passeggiata in amicizia", chi "camminata alla scoperta dei carruggi", chi "corsa non competitiva aperta a tutti".
La realtà è ben diversa: la Straventimiglia è un po' la New York City Marathon de nuiautri, per cui altro che camminata, altro che passeggiata, c'è da soffrire eccome, dall'inizio alla fine.

Non so se gli organizzatori si rendono conto di cosa vuol dire seminare voce (e tanto di manifestini) che si terrà una gara di corsa, per di più serale, proprio in una città come Ventimiglia.

Nei bar della città di confine, per tutta la settimana infuria la pretattica. Si parla della gara, si lanciano sfide, si guarderà torvi ai polpacci altrui, si esibiranno i propri, si rilascieranno dichiarazioni sul proprio stato di forma impossibili da dimostrare. Qualcuno, dovutamente rispettato da un uditorio che pratica assiduamente la disciplina della poltrona, si sente già investito dell'alloro intemelio e ipotizza gli altri gradini del podio.
Meglio così se la gara occupa i discorsi di tutti: almeno si dimenticano altri argomenti che da noi in Ponente fanno un po' più male.

Per un cinghiale la Straventimiglia è quasi obbligatoria. Dico quasi perchè ci si mettono di mezzo le solite mogli o gli impegni improvvisi, perchè, altrimenti, nessun atleta degno di questa effigie potrebbe esimersi dal partecipare, visto che è davvero una gara da cinghiali. C'è da difendere l'onore: guai se l'ambito trofeo finisse in mano a uno sconosciuto francese o un foresto: sarebbe come se il palio di Siena lo vincesse la Fiorentina.
Però, quest'anno, Borfiga e Caffara, le nostre due teste di serie, sono entrambe acciaccate e non possono partecipare. Restiamo io e Mingherlino a difendere la città.

Venerdì 18 luglio, dopo i discorsi di circostanza, il sindaco e l'assessore danno il via. Una marea di gente si riversa sul lungomare. Al primo KM il momento della verità: comincia la salita alla città vecchia. La selezione avviene per le rampe durissime tra i carugi, ma anche per le freccette che indicano la direzione da seguire: si vedono all'ultimo momento e più volte le oltrepasso senza rendermene conto (devo ringraziare il buon Remo di non averne approfittato: più volte mi ha indicato la strada, sembravamo Dante e Virgilio). A dir la verità gli organizzatori avevano preparatpo delle comode strisce di carta con su scritti i nomi delle vie uno dietro l'altro, roba che nemmeno al Monopoli, era impossibile seguirle, a rischio di finire in prigione e senza passare dal via.
Per fortuna poi arriva la discesa e i carugi si aprono sulla foce del Roya. Io e Remo proseguiamo come battistrada ma dietro sento arrivare Claudio che quella strada la sa a memoria: lì comincia davvero la gara.
Due alpini assonnati mi indicano la direzione sbagliata. Sarebbe troppo bello, sarebbe stato un taglio di almeno 700 metri sui 7km finali. Invece devo andare ancora agli scoglietti al giro di boa.
Cerco di aumentare un po' l'andatura ma alle gambe ho due tenaglie che stringono (le mura e carrugi si fanno sentire) e vedo che gli altri non sono così lontani.

Quando passo sul ponte incontro un gruppo di concorrenti che sono caduti nella trappola degli alpini; glielo dico, ma loro hanno ancora ragione e vogliono proseguire. Ognuno ha la sua sfida personale e corre sul suo personale tapis roulant.
Passo davanti al traguardo, le urla di Simonetta, Romina e Evelina mi spingono un po', ma non è ancora finita. Paolo e Andrea sono davanti in scooter e mi dicono che mancano "solo" 3 km...
Ce la metto tutta. Al giro di boa vedo una vera bagarre: c'è Claudio che sta facendo una gran rimonta, ha superato Remo ed è solo al secondo posto. Poi c'è Fabrizio pure lui in gran spinta a due passi, lo raggiungerà a breve. Mi raggiunge un ragazzo, corre piuttosto forte, mi chiedo da dove sia uscito, provo a staccarlo ma tiene e allora decido di rifiatare e tenere le energie per l'ultimo Km. Ma non c'è da mollare gli altri si avvicinano. Davanti Paolo e Andrea si sgolano a incitarmi, "Alza quelle gambe", "Non mollare", ma io e il mio avversario siamo sull'orlo di una crisi di nervi: ci studiamo, non sappiamo chi sia il più forte e le energie se ne vanno che è un piacere. Con la coda dell'occhio vedo una casacca blu dietro di noi: è Claudio che sta facendo un garone, però non posso aspettarlo, rischio di perdere le caviglie del mio collega.

Gli ultimi due km sono una serie di curve e controcurve che spezzano il ritmo e le gambe. In più le vie sono abitate e, giustamente, essendo estate, la gente passeggia, i bambini corrono, strillano, mangiano gelati che potrebbero finirti addosso in un momento.
Mi decido per un allungo, mancano 500 metri, è la mia distanza sprint: raccolgo tutte le energie che ho risparmiato e allungo la falcata. Il mio collega rimane indietro, poi non sento più i suoi passi, sono nel rettilineo finale, evito due signori che stanno stranquillamente a parlare sull'arrivo e sono al traguardo. Poi vengo a sapere che Gas il mio collega degli ultimi 3 km aveva pure lui sbagliato strada e quindi è Claudio il secondo. Un grande Fabrizio chiude al terzo posto.

Siamo stanchi, le gambe sono un macigno, ma felici. I cinchiali hanno conquistato il podio della Straventimiglia. Per un altro giorno almeno si parlerà della corsa. La città è salva.

martedì 15 luglio 2008

Mezza Maratona Bènouville-Caen “La Pegasus “ 8 Giugno 2008: ..ovvero "Due cinghiali e un Tiger













Normandia, Francia. La prospettiva è attraente: coniugare la comune passione (di Daniele e mia) per la storia con la partecipazione ad una delle gare più importanti di Francia.Anzi, una serie di gare (maratona,mezza,diecimila ed altre) che coinvolgono nell’arco di tre giorni un intero territorio invaso (pacificamente questa volta) da oltre 20mila partecipanti. Quindi si parte! Partenza da Nizza alle 20, vagone letto, Parigi all’alba del giorno dopo, trasferimento a Caen sulla costa atlantica per essere intorno a mezzogiorno comodamente installati in un albergo molto accortamente scelto in prossimità del traguardo. Scopriamo con sorpresa di essere gli unici concorrenti Italiani e dopo il ritiro dei pettorali c’è il tempo per visitare l’imponente Memoriale della Pace nei cui giardini è situato il villaggio maratona.

La sera, cena sulla costa avvolti nelle atmosfere del D-Day , fra reduci veri e figuranti finti, vecchi aerei in cielo e musiche di Glenn Miller.

E giunge il giorno. Navette dell’organizzazione provvedono a “sbarcare” (c’è scritto proprio così!) i partecipanti alla mezza in prossimità del ponte Pegasus molto più comodamente che non i parà Inglesi che lo occuparono all’alba del 6 Giugno. La storia è passata di qui e un po’ di emozione comincia a salire..ma tutto passa dopo il via. Il percorso, bello ma impegnativo si snoda attraverso la campagna normanna fra villaggi curatissimi e viottoli non asfaltati con il sostegno degli abitanti a bordo strada e le numerose bande musicali che scandiscono il ritmo dei concorrenti. Non è esattamente la gara “piatta” che immaginavo, i dislivelli si susseguono senza darti modo di rifiatare ed è con vero sollievo e molta sorpresa che arrivano il display dei tempi e lo striscione d’arrivo.

Sidro e camembert al traguardo, molto apprezzati.

Un’occhiata alle classifiche, l’arrivo dei maratoneti con qualche rimpianto da parte di noi “demi-coureurs” e poi via in auto verso l’interno a rendere omaggio nei ari cimiteri a quelli che senza retorica sono morti anche perché noi si potesse correre,oggi,dove ieri si è combattuto. File allineate ed interminabili di lapidi bianche ed istintivamente ti chiedi cosa facessi tu nell’età in cui loro sono morti, quali fossero le loro aspirazioni,quanto avrebbero potuto,se vivi, cambiare il mondo..

L’incontro con uno dei miti della mia infanzia, il carro Tedesco Tiger, mi procura un senso di disagio; non riesco a non pensare a quante vite umane abbia spento. Non riesco a vederlo solo come una macchina, il giocattolo che tante volte ho tenuto in mano…

Il giorno seguente è diviso fra visite a musei e cattedrali. Cimeli bellici ormai inoffensivi punteggiano la costa dove frotte di turisti affollano spiagge e falesie di una bellezza selvaggia. Imperdibile la passeggiata sulla spiaggia con la bassa marea. Ci inoltriamo per centinaia di metri verso il mare aperto per assistere allo strano spettacolo del sole che tramonta alla nostra sinistra!

Il treno del ritorno a casa ci consente di spendere ancora alcune ore a Caen, la “città delle 100 campane”, capitale di Guglielmo il Conquistatore e città martire distrutta nei combattimenti del luglio 1944. E’ proprio ora di andare ma il prossimo anno chissà…ci sarebbe la Maratona di Mont Saint Michel, lontano non più di 100 chilometri. Nel ritorno inciampiamo a Parigi in un improvviso sciopero ferroviario che ci procura qualche disagio dal quale usciamo (grazie Giancarlo!) senza troppi affanni.

Quindi, riepilogando, natura, gastronomia, storia ed anche, perché no, un po’ di sport. Alla prossima dunque.

Ed ora, per i cattivi studenti, un po’ di storia.

A mezza strada tra Caen e Ouistreham, la cittadina di Bènouville sulle rive dell’Orne è celebre per il suo ponte, il Pegasus Bridge.

Questo nome gli fu dato in omaggio alla 6^ Divisione Aviotrasportata Britannica il cui simbolo era un cavallo alato. Pegaso appunto.

La conquista del ponte è effettuata all’alba del 6 giugno 1944 dalla Compagnia C Battaglione Oxsfordshire and Buckingamshire del maggiore Howard. Tre alianti atterrarono nei pressi del ponte che viene catturato intatto e tenuto fino all’arrivo dei rinforzi provenienti dalle spiagge. Fra i numerosi aneddoti figura quello dell’arrivo degli stessi intorno alle 13:30. Preceduti dalle cornamuse gli scozzesi di Lord Lovat raggiungono gli uomini di Howard: “Sorry, sir, abbiamo due minuti di ritardo.”

Il ponte, sostituito ne dopoguerra, è la parte centrale del museo dedicato all’avvenimento e posizionato in prossimità della partenza della gara.

Silvio e Daniele ;-)





















sabato 12 luglio 2008

Stai tranquillo c'è sempre qualcuno più pazzo di te!!!

Diario della corsa NEANDER-TRAIL 2008, da Camp d’Argent, colle del Turini a Cap d’Ail, plage Marquet.

di Yann Ballestra.


Notte tra il 14 e il 15 giugno.




Per la mia seconda partecipazione a questo splendido ultra trail di 54 Km mi sento decisamente più preparato rispetto all’anno scorso. Di conseguenza la mia aspettativa di riuscita è, oltre all’ovvio, ma non scontato fatto di arrivare al traguardo e vincere l’ambitissima maglietta di finischer, anche quella di abbassare il mio tempo personale di 11 ore e 28 minuti.
Il ricordo della sofferenza patita e delle emozioni vissute sono ancora vive in me come immagini e come memoria corporea. Da un lato sono dunque animato da una grande motivazione, dall’altro è forte l’apprensione, la paura di dover affrontare la notte, il freddo, la solitudine, la possibilità di perdersi in mezzo al bosco o farsi male. Poi c’è la fatica, i dolori muscolari e articolari, il corpo che dice basta dopo 5 ore di corsa, mentre tu sai chiaramente che sei solo a metà e devi trovare le risorse nella tua mente, risorse quasi magiche che possono poi permetterti di fare cose straordinarie, che in definitiva vuol dire “semplicemente”, arrivare alla fine.
Insieme a me Jeff, l’amico che mi ha fatto conoscere la corsa e che l’anno scorso si è dovuto ritirare per crampi. Da più di otto mesi si prepara con un intenso allenamento da triathlon; io invece non sono così pronto, ma ci accordiamo comunque per cercare di correre insieme e motivarci a vicenda nei momenti difficili.
Sabato mattina mi sveglio alle sette. Da una settimana ormai la notte non faccio altro che sognare la gara, mentre di giorno il pensiero fisso ritorna incessantemente e in modo ossessivo. Finalmente ci siamo! Controllo il meteo e mi rendo conto che non sarà facile, in montagna sono previsti temporali fino a notte fonda. Preparo la colazione del neanderthal, un bel centrifugato di frutta e due etti e mezzo di pasta all’olio e grana, ma fatico a mandar giù tutto, lo stomaco si contrae per la tensione; tuttavia mi sforzo perché so che stanotte tutto ciò sarà benzina per le mie gambe. A mezzogiorno un altro piatto di pasta mentre preparo meticolosamente il mio micro zaino nel quale metto un litro e mezzo d’acqua, una coperta di sopravvivenza, sei barrette energetiche, un fischietto, un coltellino, una fascia di contenzione, due bustine di polase, una lampada frontale dei compeed e l’ipod.
Alle 13 passo in spiaggia a salutare Cristina e i bimbi. C’è un bel vento da ponente e gli amici del windsurf sono tutti in acqua, mentre io con la mente mi sento già altrove, immerso in una dimensione puramente introversa, non penso a nulla, mi sembra di galleggiare nel vuoto, ma non è così. È la tensione che sale.
Da Bordighera con la macchina passo a Mentone a prendere Jeff, non parliamo molto. Arriviamo a Cap d’Ail dove domani all’alba dovremmo tagliare il traguardo sulla spiaggia, mentre un grosso cronometro segna il tempo dei cromagnon, partiti stamattina da Limone. Loro percorreranno più di 100 km correndo… e mi inchino. Prendiamo posto sull’autobus che ci porterà a Camp d’Argent, la partenza. Il viaggio è lungo, ho freddo, sono seduto scomodo. C’è chi parla incessantemente, chi medita, chi cerca di dormire. Mi colpisce un uomo di fronte a me, agitatissimo, un po’ soprappeso, ha l’aria da turista con la sua maglietta di cotone bianca, mentre la maggior parte degli atleti sono con vestiti iper tecnici, mi chiedo: “Ma dove va? Lo sa cosa dovrà affrontare?” Poi mi dico: “Non giudicare nessuno, non guardare nessuno” e faccio bene, me ne renderò conto all’arrivo. Man mano che saliamo il tempo si fa sempre più grigio e nebbioso, poi comincia a piovere. Dopo due ore e mezzo arriviamo al campo base. Ci fanno entrare in una baita: siamo un centinaio di pazzi, una trentina di donne, tutti attorno a due caminetti accesi. Ritiriamo il pettorale consegnando il certificato medico sportivo e poi la coda al cesso, tutti in fila a pisciare. Non è la prostata, ma la tensione pre-gara. Meno male che la diarrea l’abbiamo scaricata tutti la mattina a casa…
Bene, ora siamo puri, totalmente vuoti, fisicamente e mentalmente, pronti a nutrirci di paura, nebbia, pioggia, fango e sudore.
Lo starter grida: “Ok, tutti fuori! Anticipiamo la partenza, sono previste piogge più intense per le prossime ore, i sentieri sono molto scivolosi, state attenti nel bosco e sui crepacci, tra cinque minuti darò il via!”
Uno strano silenzio scende sulla baita, si sente solo il fruscio delle giacchette e degli zaini. Usciamo fuori, fa freddo e piove. La partenza è in salita, un primo dislivello positivo da 1700 a 2000 metri di altitudine in 8 km. Siamo tutti accalcati di fronte ad un nastro bianco e rosso. Conto alla rovescia: -10..9..8… tutto ad tratto la tensione monta alle stelle e dal silenzio assoluto emerge un boato provocato da tutti i concorrenti, neanche si partisse per uno sprint! -3..2..1 Via! Partiti.
Io (giacchetta azzurra e cappello da Indiana) e Jeff ( alla mia sx con cappello bianco) un attimo dopo la partenza
Corriamo subito ad un buon ritmo e in pochi minuti il gruppo si divide in due sezioni, chi corre e chi decide di scaldarsi camminando, in fondo dobbiamo percorrere 54 km, c’è tempo. Io e Jeff abbiamo fissato il nostro primo obiettivo: arrivare a Sospel, il primo punto di controllo e ristoro, in meno di 3 ore, sono 24 km. Quindi non possiamo che correre e anche a un buon ritmo. Il primo tratto sale e io vado subito in affanno, sento le gambe dure, i polpacci tirano e non ho fiato, il cuore è troppo veloce. Che mi succede? Poi capisco, sto patendo l’altitudine, mi sono sempre allenato al mare e il mio corpo si adatta lentamente, in più sento molto la tensione della gara, un mix mortale. Jeff mi guarda preoccupato mentre sputo catarro e saliva bianca, ho mal di testa, tutti indici di insufficiente ossigeno nei muscoli. Cerca di rassicurarmi e spronarmi: “Dai, dobbiamo fare i primi 6 km in meno di 45 minuti, sono i più duri, poi ci sarà una lunga discesa, non mollare”. Cerco di tenere duro e forzare, ma mi sento stremato, i battiti sono troppo alti, mentre in realtà sto solo corricchiando e non dovrei neppure sentirlo il cuore, anche se in salita. Dopo mezz’ora comincio a rallentare e alla fine decido e gli dico: “senti vai, tu stai bene, ti sto solo rallentando, tanto non ce la faccio a tenere questo ritmo, non ti preoccupare, ci sentiamo col cellulare e magari ti riprendo a Sospel”. Sorrido, ma ho paura. Devo insistere parecchio, ma alla fine lo convinco e il suo ritmo cambia, in meno di 5 minuti sparisce dalla mia vista, per fortuna non si gira mai. Di colpo sono completamente solo, fragile, un po’ perso, con un handicap forte già alla partenza, ma tutto ciò, magicamente, mi fa scattare qualcosa nella testa e la difficoltà, invece di deprimermi, mi motiva. Nel frattempo non smetto di correre, anche se lentamente. Il cuore sempre a mille, parecchie extrasistole di contorno e sulle spalle parecchia pioggia, sempre più intensa.
Queste condizioni fisiche perdurano per le prime due ore, i primi 16 km fino ai primi 1400 metri di altitudine, poi, progressivamente mi sento sempre più leggero, le gambe più libere, mentre spiove e il fango è meno presente sul sentiero. Allora comincio a lasciarmi andare in discesa, il busto in avanti trovo un buon ritmo e recupero il tempo perso rischiando tuttavia più volte di cadere. Sforzo parecchio, ma mi sento bene, vivo e in gara.
Arrivo a Sospel, il primo punto di ristoro, in tre ore e 5 minuti. Sono 24 km fatti, finiti e conquistati, passando per un bosco buio e fangoso, sentieri ripidi, con la luce frontale che si rifletteva nella nebbia creando uno schermo bianco accecante. Appena mi fermo mi rendo subito conto di aver bruciato molte energie, in più sono bagnato fradicio e ho freddo, come tutti gli altri d’altronde. Ci sono due amici ad accogliermi, Enrico e Valentina, è bellissimo vederli, dopo quelle interminabili ore passate da solo, ma non aiuta e un pensiero perverso si affaccia alla mente: ”Potrei farmi portare a casa da loro, in fondo ho già corso tanto, cosa devo dimostrare di più, sono stanco, ho freddo…”. Un brivido mi scuote. Bevo del the caldo, mangio una banana, mi riempio le tasche di uvetta, la borraccia d’acqua e li saluto pensando: ”Devo assolutamente ripartire al più presto”. E riparto. Da Sospel si comincia a salire seriamente, è il primo colle da affrontare con un dislivello del 20,44% per 2km e mezzo, ripidissimo, in sostanza ci si arrampica. Fatico, ma sto bene, le gambe ci sono, il cuore anche e tengo un buon ritmo. È notte fonda e tutto tace, da più di due ore non piove e i vestiti cominciano ad asciugarsi. Dopo più di un’ora arrivo in cima, stanco ma felice, il cielo comincia ad aprirsi, sopra di me fa capolino un splendida luna che illumina il bosco. Le montagne da cui provengo sono ancora immerse nelle nuvole, verso sud, invece, scorgo il mare infinito che si confonde con il cielo e il mio spirito si riempie di speranza, anche quest’anno posso farcela!
Ho percorso ormai correndo e arrampicandomi 30 km, scendo dal Col de Castillon e arrivo su una pista in terra battuta tutta in falso piano e ricomincio a correre, anche se mi devo obbligare, anche perché la tentazione di riposarmi un po’ dopo la lunga scalata è forte. In più so che tra 6 km dovrò affrontare il colle più duro, il mitico Baudon, ma so che sono questi i tratti in cui posso migliorare il mio tempo e allora via, di corsa, le ali ai piedi, anche se le gambe fanno male, così come le articolazioni di caviglie, ginocchia e bacino: un concerto in do-lore.
Arrivo al rifornimento del Col des Banquettes, un grande fuoco immerso nell’oscurità, visi accoglienti e ammirati da parte degli organizzatori pronti a servirti e sollecitarti a mangiare e bere, mentre i compagni di corsa, una quindicina in tutto, sono silenziosi, le facce stravolte e gli occhi impallati, rossi, guardano altrove perché non è affatto finita. Lo stomaco è contratto per il freddo patito su in montagna, ho la nausea, i brividi, le gambe dure e doloranti. Sento tuttavia di avere ancora energie e tanta voglia di farcela. Sono consapevole che d’ora in poi sarà una dura lotta oltre i limiti del mio corpo, una questione puramente mentale, fatta di imposizioni e regole: obbligarsi ad andare avanti, non fermarsi assolutamente mai, dovessi arrivare a far passare minuti tra un passo e l’altro. Mi aspetta una salita di 2 km e mezzo con una pendenza del 21,20%, per poi scenderne altrettanti strisciando col culo su una pietraia per non rotolare a valle. Guardo una volta, una volta soltanto il mio nemico, guardo la cima e più su la luna e le stelle. Poi abbasso la testa, la luce della lampada frontale illumina le mie scarpe e le mie gambe in un tutt’uno di fango e sudore. E allora dai! Un passo dopo l’altro, le ali ai piedi e saliamo in Paradiso!
Fa subito male, il cuore batte forte, sento il mio respiro, ogni tanto digrigno i denti ed emetto strani suoni, mi brucia il petto e mi chiedo se non mi verrà un infarto. Punto i bastoni a terra e mi tiro su, ogni tanto mi aggrappo anche a un ramo, sto praticamente scalando. Mi dico: “Yann, non ti fermare per nessun motivo finchè non arrivi in cima”. Dopo poco si accoda un gruppetto di 5 persone, chiedo se vogliono passare, mi rispondono che il mio ritmo va benissimo. Li tiro per 45 minuti, finchè ad ogni passo il respiro si fa più pesante, la salita sembra infinita. A 5 minuti dalla cima il sentiero si allarga e inesorabilmente, uno dopo l’altro, il gruppetto mi supera. Sono in difficoltà, avanzo a rilento e penso che non arriverò mai in cima. Se mi fermo ho la sensazione che le mie gambe potrebbero bloccarsi come tronchi e rimarrei per sempre piantato in questa maledetta salita. Penso: “Aiutatemi…”, guardando il gruppetto che si allontana sempre più, ma non ricevo nessuna parola di incitamento. Piano piano spariscono nella notte e mi ritrovo solo. È il momento più duro, ho paura. “Dai Yann, dai, si corre da soli qui, è il bello di quest’avventura, sei quasi in cima, manca poco, solo un piede davanti all’altro, non costa nulla”. E invece costa, tantissimo. Dopo un’eternità di passi alzo lo sguardo e vedo, a 20 metri, la cima. Ci sono! Di colpo sento il mio corpo scaldarsi, ce l’ho fatta, 530 metri di dislivello con 35 km nelle gambe. Ormai sono più di sette ore che corro e mi arrampico, che soffro e che vivo in modo talmente intenso! Dio mio sono in Paradiso, da lassù vedo casa, Bordighera, con le sue lucine bianche, poi dalla parte opposta l’aeroporto di Nizza, la splendida, fino a Cannes, dietro di me le montagne nere che ho appena attraversato, sempre immerse nella nebbia inquietante. Ma io corro verso la luce. Mentre la luna lentamente tramonta, da est si affaccia la luce del sole, della vita e la mia vittoria bussa all’orizzonte. Ormai ci credo veramente! È tutta la notte che corro e anche solo per essere qui, in questo istante, su questa altissima cima, a guardare il mare fuso nel cielo con le navi illuminate che sembrano vascelli spaziali sospesi nel nulla, ne è valsa la pena. Mentre centinaia di migliaia di persone dormono ai miei piedi, io sono qua, sveglio e vivo come mai, in questa magica notte, che è solo mia, perché da solo sono arrivato fino qua.
Ma non è finita, ci sono ancora 17 km da percorrere, da correre. La conquista del colle mi dà una sferzata di coraggio e rinforza la mia volontà. Scendo a tentoni, giù per una ripidissima pietraia e comincio a sentire la brezza tiepida del mare, gli odori familiari della ginestra selvatica, del timo e del rosmarino. Piano piano la natura si risveglia e non è più il silenzio angosciante del bosco, ma un concerto di uccellini che mi accompagnano. E mi sforzo di correre, faccio 20 passi di corsa e 10 camminando, appoggiandomi con forza ai bastoni. La strada riprende poi ancora a salire per 3 km al 7%, è una vera tortura, ma finisce in fretta. Sono alla antenne sopra Nizza, corro, corro, non so nemmeno io dove trovo la forza. Arrivo al golf di Monaco sul Mont Agel, ormai sono sicuro di farcela e rallento un po’ prima di arrivare alla Turbie. Il telefonino squilla, è Jeff che felice mi grida: “ce l’ho fatta, ce l’ho fatta, sono appena arrivato, ci ho messo nove ore, non so come, è incredibile!!” Mi complimento con lui dandogli del cinghiale di montagna. Poi mi chiede dove sono, sa che sto soffrendo come un cane e che non posso più correre, ma riesce a motivarmi. Mi dice che mi manca meno di un’ora e che “devo” correre. Lui mi aspetterà all’arrivo per farmi una foto, ma solo se arrivo correndo. “Dai sbrigati che qui c’è una doccia calda magnifica”, mi dice ridendo. Ritrovo nuove energie dalle emozioni trasmesse dalla sua personale vittoria e incredibilmente ricomincio a correre. Passo la Turbie, ultimo punto di ristoro, senza fermarmi, al volo prendo un po’ di cioccolato. Corro come un burattino, ma corro. La discesa è infinita, è un’ora lunghissima e nel frattempo si fa mattina. Il mio corpo sprigiona il calore di una fornace, mi sento duro, pesante e goffo, ma la mia anima è libera e leggerissima. Sono veramente felice, mi godo il panorama e corro verso il traguardo. In lontananza vedo Jeff che si sbraccia, gli passo accanto e poi costeggio le transenne dell’arrivo. Non sono ancora le 6 del mattino e ci sono solo i corridori che sono già arrivati. Tutti ti sorridono zoppicando, mentre tu ancora corri quegli ultimi 10 metri da eroe. Gli sguardi si incrociano per un attimo, sono persone che non conosci, ma che hanno appena percorso la tua stessa strada e negli occhi hanno tutti una luce… Tre passi di corsa e poi il traguardo, e un piccolo applauso. Mi fermo, cammino e abbraccio Jeff. 10 ore e 20 minuti, un’ora in meno rispetto all’anno scorso!
Mi sento svuotato, fatico a parlare eppure sento di avere qualcosa in più rispetto a ieri sera, di essere più autentico, di sapere qualche cosina in più sul senso della vita. Sento di avere ancora più voglia di vivere dopo aver vissuto così intensamente per più di 10 ore. Ma soprattutto, sento che la mia anima sta già cercando nelle immagini della memoria, sentieri e boschi. La mia anima non vede l’ora di ricominciare a correre, le ali ai piedi…
Io all’arrivo
P,S. poco dopo essere arrivato, mentre andavo verso la doccia, vedo seduto il corridore improvvisato che avevo incontrato sull’autobus tutto agitato, un po’ sovrappeso, con gli occhiali da vista e senza attrezzatura tecnica. Dentro di me lo avevo giudicato sprovveduto e, sinceramente, anche un po’ sfigato. Tanto sfigato che è arrivato un bel po’ prima di me al traguardo. Allora ho capito una cosa: nella vita sono le persone più semplici che fanno le cose più straordinarie.

mercoledì 2 luglio 2008

A Manosque, sotto il sole giaguaro


Mai, mai, scorderò l'attimo, la terra che tremò.
L'aria si incendiò e poi... silenzio.
Così cominciava la sigla di Ken il Guerriero, cartone post-moderno di cui tutti o quasi ci ricorderemo. Ma queste parole possono andar bene anche per descrivere il Triathlon des Vannades 2008.

E' stata una giornata che difficilmente noi del Ponente dimenticheremo. E non solo per la grande prestazione di Andrea (25° assoluto con 2.42.27) e quella di Paolo (32° con 2.45.12, arrivato a braccetto con Stefano 31° a 2.45.10). Questa edizione del Triathlon di Manosque sarà per sempre impressa nella nostra memoria per la temperatura con cui è stata disputata: alla partenza il termometro segnava i 35° C.
Non so se i regolamenti della Fitri, così dettagliati su drafting e doping, si prodighino altrettanto sui limiti della temperatura a cui disputare un triathlon. Nel caso, quelli nella FFTRI sono di certo molto più elevati. Del resto, si sa, i francesi hanno la legione straniera e alle frittate di questo tipo ci sono abituati.
Manosque è una ridente cittadina in mezzo alla Provenza, tra la Durance e il Luberon. Per arrivarci si punta Aix'n P. e poi si vira verso nord per aggirare il Monte St. Victoire caro a Cezanne. Nessuno a Manosque immagina che una allegra combriccola di cinghiali itaiani si sta dirigendo lì, proprio nel bel mezzo di una tipica canicola provenzale, per partecipare ad un triathlon. A dir la verità, la maggior parte di noi nemmeno se l'immaginava dov'era Manosque. Qualcuno però, in quella sfortunata giornata di Beaulieu, s'era ritrovato sul cofano un volantino del Triathlon des Vannades tutto inzuppato, ma ancora leggibile. Il verbo s'era così immediatamente diffuso. Fabrizio poi c'era stato l'anno prima, la gara gli era piaciuta, i ristorantini pure, quindi al limite, non si rischiava nulla ad andare.E, allora, uno per tutti e tutti per uno, s'era pensato a rifarsi della delusione: andiamo a Manosque!
Tre auto cariche di bici, donne e cinghiali attraversano il Var, superano il massiccio dell'Esterel. Fuori il foraggio scotta al sole e il riverbero crea miraggi sull'asfalto. Lo scenario comincia a delinearsi: non si vede una nuvola, ci sono solo campi, vigne, canali.Dopo tre orette di macchina con il climatizzatore a tutta, uscire e passeggiare nella zona cambio è come visitare un pianeta ostile: la gara parte da un lago artificiale nel bel mezzo di una conca, una specie di depressione caspica. C'è ancora chi spera di nuotare con la muta, poi arriva la conferma: acqua a 27°, muta non consentita.
Famiglie intere banchettano sulla riva o sguazzano nell'acqua.Noi montiamo le bici con una lentezza da bradipi. Ogni gesto costa sudore. I francesi invece non si smentiscono mai. Attorno a noi s'aggirano macchine da cronometro e da guerra, con ruote affilate come affettatrici e prolunghe, rostri, speroni per tagliare l'aria calda come il burro. I 300 di Manosque sono tutti in fila davanti ai giudici alle 14 esatte. Il briefing è stato un vero siparietto: l'organizzatore, un tipo bizzarro con panama e camicia pseudo-hawaiana dà consigli preziosissimi: "ragazzi, in discesa chiudete la bocca se non volete ingoiare un'ape...".

Finalmente si parte: il nuoto è l'unica parte della gara che uno riesce a godersi, appena fuori comincia un bollito misto di 53 km. C'è un po' di tutto: pianura, falsopiano, mangia e bevi, una salita pedalabile e una salita più dura che porta in una specie di terra di mezzo, dove non si è nè in pianura nè in montagna. Penso: se fossi qui per i fatti miei butterei la bici in un campo di grano e mi metterei sotto un leccio a leggere un libro di Giono. Il silenzio è quasi assoluto. L'unico rumore è quello della bici e dei pedali, il tuo involontario girarrosto. Ogni tanto c'è una casa disabitata, in mezzo al grano. Le finestre sono sbarrate dai tempi del colera.

E' qui che viene fuori la gara. Il mondo è un altopiano. Mentre sono solo in mezzo ad un campo assolato nel nulla, con l'idea di mollare ad ogni curva e cercare disperato una fontana, penso ai miei amici. Ci siamo tutti: frontalieri senza confini, leoni berberi, achilli fragili, tutori inquieti dell'ordine di se stessi, draghi, Eta-beta, volpi di Gouta. Ci siamo tutti, insieme, qui a soffrire e a scolpirci nel sudore. Di colpo la fune che mi trattiene si strappa, la fatica si allontana, il traguardo si avvicina. Teste colorate spuntano dalle spighe. Non sono gru, sono i caschetti dei colleghi che mi precedono.

Cambio, metto le scarpe per correre senza pensarci, si corre sui bordi del lago in mezzo ai bagnanti e ai loro schizzi. Sono tutti educatissimi e incitano dal primo all'ultimo concorrente. Per fortuna l'organizzazione ha ingaggiato ragazzini con tanto di fucili ad acqua che ti fucilano a dovere appena gli passi vicino.
Le nostre donne urlano, menomale ci sono loro: Evelina, Morena, Romina e Simonetta. Se fare il triathleta non è facile, essere la donna di un triathleta è quasi impossibile: ore e ore ad aspettare un tipo tutto sudato che poi dovrai abbracciare e baciare a dovere, esultando per un 139° posto come per un trofeo. Altrimenti musi.
Il mondo del triathlon in Francia è una macchina perfetta. La gara si conclude, il circo ricomincerà da qualche altra parte. Noi invece ce lo portiamo dentro, il nostro sole giaguaro.