mercoledì 27 aprile 2011


23 aprile 2011
Trail des Balcon d’Azur -Mandelieu la Napoule-



“[…] che insistenza, la pioggia!
L’acquazzone aveva battuto tutta notte lastrico e tetti. Il cielo basso, carico d’acqua, sembrava rompersi e vuotarsi sopra la terra; e spappolarla la terra, fonderla come zucchero. Passavano raffiche piene d’un calore pesante.”
Guy de Moupassant adorava Mandelieu e le rocce vulcaniche della Napoule, la sua “Montagna Sacra”. Rossa, d’un rosso profondo e acceso che neppure la pioggia di oggi può spegnere, che neppure questa nebbia bassa può nascondere.



Siamo tre amici venuti a correre in questo luogo così vicino a casa nostra eppure così straniero e magico. Quasi alieno per come poco si svela, per il suo castello misterioso costruito sulla rocca del mare con la roccia del posto, proprio accanto alla spiaggia porpora dov’è allestita la nostra partenza. Pochi atleti fanno capannella sotto le tende degli sponsor, tra loro molte donne. C’è voglia di far girare le gambe, di scaldare questa pioggia addosso al corpo, di sentire l’odore delle pietre e del fango, di tuffarsi nel bosco…
Trois, deux, un… partiti! E subito si sale, senza grandi strappi lungo un dislivello progressivo, intervallato da simpatici toboga fangosi nella boscaglia, per 8 km, verso la cima del colle Pelet, regalandoci variazioni infinite di sentieri, colori e profumi. Il ritmo è alto, questo è un trail corto e molto veloce. Siamo tutti e tre in gara, ognuno sceglie il suo potenziale avversario, quello da non mollare, quello un po’ più forte di te in salita…è un gioco che ti impedisce di rallentare, di perdere la concentrazione e ti obbliga a spingere, inesorabilmente, fino alla cima.
Nel frattempo attraversiamo boschi variegati, con pini d’aleppo, sugheri e carrubi, mentre in terra sembra che un giardiniere folle abbia piantato un’infinita bordura di lavanda e salvia in fiore.


Lentamente spiove e dalla nebbia bassa svettano le ruvide falesie marziane, leggermente inquietanti, che rimandano a vertigini e desiderio di vuoto, proprio mentre la forza di gravità si fa sentire più forte in salita. Intorno a noi il verde intenso e sontuoso della macchia rassicura e compensa questa sensazione di spaesamento. Per tutti e tre, me ne sono convinto semplicemente guardando gli occhi dei miei compagni, essere qui oggi vuol dire ritrovare l’essenza della corsa. Scarpe zuppe e gambe infangate, il corpo caldo e lo sguardo sempre un paio di metri più in là, affamato di km, paesaggi e orizzonti impossibili.
Marina è al suo primo trail, ma il ritmo e la grinta, così come lo stupore continuo stampato sul viso, la integrano subito nel gruppetto delle toste della giornata, con alcune delle quali si scannerà tenacemente senza mai mollare. Vincerà infatti la tenacia, la consapevolezza della paura, il brivido di un ruzzolone in una discesa a mille seppur iper-tecnica. Vincerà la tenuta del ritmo, in salita così come in discesa. E all’arrivo i due maschietti si levano ammirati il cappello, per la seconda volta in pochi giorni, tra l’altro.
Questo trail è –come scrisse Moupassant descrivendo il viaggio– una specie di porta attraverso la quale si esce dalla realtà nota per penetrare in una realtà inesplorata che sembra un sogno.
E come fosse un sogno, io continuo a vivere ogni trail. Attraverso la Natura, nell’essenza stessa del Mondo io in questo viaggio mi perdo, grazie alla fatica, nelle sensazioni e in quel dialogo magico che si attiva tra il mio corpo e ciò che mi circonda…

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